«Here no star. If you want the stars go to the sky». Sono queste le parole del dipendente scorbutico e risoluto di un albergo, «un postaccio di Tel Aviv» che ha conquistato cuore, anima e psiche di Tommaso Pincio; l’Hotel a zero stelle, che dà il titolo al suo libro pubblicato da Laterza nel 2011, è dunque un luogo caro allo scrittore: «è il mio albergo ideale i cui ospiti tipo dovrebbero essere i vagabondi dell’anima, coloro che gironzolano alla ricerca di sé, senza troppa arte, né parte […] Solitamente un buon albergo a zero stelle si compone di quattro piani perché così vuole il mito della conquista di sé, articolato come noto, in quattro fasi. Alla maniera del viaggio dantesco lungo i regni ultramondani, il viandante in cerca di sé passa dallo smarrimento iniziale in una qualche selva oscura a tre fasi successive più o meno assimilabili a inferno, purgatorio e paradiso».
Poco dopo aggiunge: «C’è un primo piano, nel quale l’ospite è ancora spaesato e incerto su cosa fare. E un secondo piano dove lo smarrimento si popola di mostri. E un terzo piano in cui l’ospite cerca la forza di reagire e prende le misure di ciò che lo circonda. E un quarto piano in cui l’ospite raggiunge una forma di consapevolezza che gli consente l’accesso al tetto dal quale tornare a vedere un po’ di luce, quelle stelle che l’albergo non ha». Ed è così spiegata la struttura del libro costituito da quattro capitoli corrispondenti ai quattro piani. I paragrafi sono le varie stanze dell’albergo, ed ogni stanza è “abitata” da uno scrittore e dedicata al misterioso intreccio fra letteratura e vita. Incontriamo Parise, Green e Kerouac al primo piano, lì dove «la menzogna è la condizione inevitabile dell’esistenza» e «il romanzo è un sublime trattato sull’impossibilità di essere sinceri».
Tra gli ospiti del secondo piano, in cui è protagonista «lo spettro del fallimento», troviamo Fitzgerald, Wallace e Simenon; per quest’ultimo «il vero vivere è sempre stato la vita. Gli interessava l’essere umano e la scrittura era per lui un buon modo per conoscerlo».
Al terzo piano – «la realtà non è di questo mondo» – alloggiano Dick, Landolfi e Melville. Al quarto piano dove si avverte «la necessità di ribellarsi alla morte», gli ospiti sono Pasolini, Orwell e Marquez. Alla domanda a cosa servono i romanzi Pincio dichiara che avrebbe risposto «a niente se non a farti evadere dalla realtà», ma è proprio con il romanzo di Marquez L’amore al tempo del colera che scopre «quanto sia indispensabile la scellerata vanità dei romanzi» e afferma: «L’essenza del romanzo è quella di offrire illuminazioni vaghe. A differenza di tutti i modi in cui è possibile servirsi del linguaggio, i romanzi non brillano mai di luce propria ed esclusiva. I testi filosofici brillano di verità, quelli di storia brillano di passato, le poesie brillano di assoluto, i reportage brillano di realtà. I romanzi se e quando brillano, lo fanno a tratti e di una luce riflessa, una luce che è tutto o niente, che una volta è quella della verità filosofica, e un’altra è quella dell’assoluto poetico».
Pincio ci regala inoltre una curiosità che riguarda l’artista Alighieri e Boetti e di cui anche su Internet, per esempio sul sito della BBC, si trovano ancora immagini e notizie: dopo il primo viaggio a Kabul nel 1971, l’artista italiano aveva affittato dei locali che per cinque anni furono l’Hotel One. Divise gli spazi in undici camere e ogni volta che visitò l’albergo (circa due volte l’anno fino al 1979) occupò la stanza numero 11. Pincio ricorda queste parole di Alighieri e Boetti: «per me creatività è anche fare un albergo».
Noi che cerchiamo i Luoghi d’Autore cogliamo a pieno il fascino e le sfumature di questa affermazione.