Nel dicembre 1907, pochi giorni prima di Natale, Lou Andreas Salomé scrisse una lettera destinata a due bambini di sua conoscenza, figli di una cara amica. L’autrice si trovava a Gottinga, nella città in cui oramai viveva da qualche anno; Schnuppi e Bubi, i due bambini a cui si rivolgeva, si trovavano invece a Berlino. Questa lettera si trasforma gradualmente in una fiaba che, per le stratificazioni di significato contenute, può essere letta da grandi e piccini, come suggerisce Alba Chiara Amadu nella postfazione al volume Fiaba per il Natale, pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Il Melangolo.
Ho ricevuto in dono questo libricino lo scorso Natale e tale è stata la gioia, vista la passione che nutro per gli scritti e la vita di questa donna straordinaria, da attendere tutto un anno per leggerlo. E oggi, nel magico periodo dell’attesa, l’ho letto.
E lo leggerò anche nei prossimi anni, a voce alta, insieme a mia figlia: questa fiaba è infatti un invito a «festeggiare la vita incontrandovi il sentimento della gioia e dell’armonia entro un’esistenza che talvolta pare allontanare l’uomo dal suo stesso essere». Babbo Natale è un modo per il bambino di cogliere quanto di «meraviglioso la vita può offrire. Formandosi, il bambino avverte di partecipare a una comune forza creatrice, per cui non vivrà come tradimento la scoperta che Babbo Natale non esiste, ma si sentirà piuttosto capace di soddisfare le aspirazioni circa il proprio essere nel mondo».
I fatti descritti nella fiaba, l’incontro della scrittrice con Babbo Natale avvenuto «nella luce sempre più dorata dell’ultima domenica dell’Avvento, prima del Natale, dopo le quattro del pomeriggio», sono ovviamente frutto della fantasia, reale è invece il luogo in cui si svolge la vicenda: «Ero scesa dalla nostra collina per andare in città con l’intento di procurarmi le candele da mettere sull’albero di Natale. Laggiù non c’era quella solita confusione di carrozze, cavalli e uomini indaffarati, come accade prima della festività da voi nella capitale. Ma in queste strade silenziose e strette, e nella piazza squadrata del mercato presso il municipio – la cui fievole illuminazione è appena più intensa per il chiarore dei tanti alberi natalizi posti dietro le vetrine dei negozi – ci si potrebbe perfino immaginare di vedere un aiutante di Babbo Natale comparire furtivamente tra i bambini presenti […]». Le parole di questo breve brano raccontano tanto di Lou Andreas Salomé. In quegli anni, dopo che il marito aveva ottenuto una cattedra a Gottinga, la scrittrice si divise molto fra questa cittadina e Berlino dove frequentava l’amica Helene Kilingenberg e i suoi figli Bubi e Schnuppi, oltre che gli intellettuali della Capitale, fra cui Gerhart Hauptmann (Premio Nobel della Letteratura nel 1912). Ma dopo tanti anni trascorsi in giro per l’Europa, il trasferimento a Gottinga rappresentò per lei una svolta. Apprezzò in maniera particolare la casa in cui andò a vivere, il suo rifugio. Fu così importante godere finalmente dei propri spazi da sentire l’urgenza di descrivere la sua dimora nel romanzo che, non a caso, porta il titolo La casa. Definì «indirizzo commentato» una lettera scritta a Rilke nel novembre del 1903, poco dopo il suo trasloco a Gottinga. Vi è infatti un’accurata descrizione di spazi interni ed esterni, ed in particolare, circa il suo nuovo luogo, commentò: «In un vasto paesaggio che esso domina ampiamente, con i suoi faggeti e le lunghe colline, dietro le quali da qualche parte si leva lo Harz. Ai nostri piedi la città, giù a valle. E attorno a noi un vecchio giardino ricco d’alberi, un frutteto e un orto. Non manca neppure il pollaio! Qui io sono diventata una contadina e mio marito un professore». Rilke le rispose qualche giorno dopo da Roma «Cara Lou, mi fa una strana impressione che ora attorno a te ci sia una patria, una casa piena della tua essenza, un giardino che vive di te, uno spazio che ti appartiene».
Nel dicembre del 1909, in una delle tante belle lettere che compongono l’intenso epistolario fra la Salomé e Rilke, lei gli scrive sempre dalla sua casa di Gottinga mentre lui è a Parigi. Lei si trova in una «stanza che profuma meravigliosamente di ciocchi di pino bruciato» e commenta: «Sai che Natale è “dei grandi” solo se improvvisamente giunge un ricordo – è come se un filo d’argento di un invisibile albero di Natale fosse rimasto appeso da qualche parte e portasse con sé una moltitudine di piccoli ricordi scintillanti, proprio come la confusione che si è soliti far pendere all’albero di Natale e che solo grazie al filo d’argento di colpo si trasforma in una festosa unità […] E pensa con che cosa mi diverto ora straordinariamente né ho intenzione di smettere più: scrivo storie per bambini. Ho cominciato per due bambini che conosco: quelli dei Klingenberg. Bubi e Schnuppi, come sono chiamati in casa. Tre storie sono già pronte e tanto belle che non te le puoi neanche immaginare! Una si intitola: Il vero Babbo Natale, l’altra: La favola del sasso, della margherita e delle nuvole e la terza: Dove si parla di uccelli, volpi, farfalle, topi e di altre cose terribili. Questa è la notizia più grandiosa che avevo da comunicarti».
E così , leggendo la fiaba di Natale scritta da Lou Andreas Salomé, sono stata a Gottinga, nella sua casa, fra i suoi libri e le sue lettere. Un viaggio nel sogno di vedere gli spazi in cui si è mossa questa incredibile donna, sogno che non si potrà mai concretizzare perché la sua casa è andata da tempo distrutta; a Gottinga rimangono oggi solo alcune tracce che ricordano Lou Andreas Salomé: una targa commemorativa sull’immobile costruito al posto della sua casa; il Lou Andreas Salomé Weg, un viale a lei intitolato; un istituto di psicoanalisi e psicoterapia che porta il suo nome.
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