Viaggio in Uzbekistan – di Diego Zandel

Il fatto che nelle note di informazioni utili per il viaggiatore che si rechi in Uzbekistan  il tour operator avesse scritto in caratteri tutti maiuscoli “I giornalisti e i militari devono dichiarare la loro professione” mi aveva un po’ preoccupato, ma anche incuriosito. L’Uzbekistan era allora davvero un Paese da visitare! L’unica cosa da fare era lasciare a casa il tesserino dell’Ordine dei giornalisti e, favorito dall’assenza di una nota sul passaporto che specificasse la professione, partire.Il tour, organizzato da un’agenzia gestita da una donna armena specializzata nei viaggi in Asia centrale, prevedeva tappe da Mille e una notte: Khiva, Bukhara, Shakhrisabz, Samarcanda, Tashkent, in pratica quella che, sulle tracce di Marco Polo, è conosciuta come la via della seta. Partenza in aereo da Roma Fiumicino per Urgench, e da lì percorrere l’itinerario che in pratica attraversa longitudinalmente quasi l’intero Uzbekistan, che ha una superficie di 447.400 km quadrati, quasi 150 mila in più dell’Italia, anche se in gran parte di steppa, con una densità scarsa di abitanti. Questi sono concentrati per lo più nelle città principali, soprattutto a Tashkent, la capitale, che con i suoi oltre due milioni e mezzo ma un agglomerato complessivo che raggiunge tra i cinque e i sette milioni di abitanti, è anche il più grande centro della valle del Fergana dove vive un terzo della popolazione dell’Uzbekistan. Una popolazione, per altro, sempre in crescita se pensiamo che col censimento del 2014 superava i 28 milioni di abitanti e ora, 4 anni dopo, raggiunge quasi i 34 milioni (ma sembra che ci sia ora una politica di deciso contenimento con l’idea di far aumentare invece la qualità della vita della popolazione).

Khiva, con i suoi 40 mila abitanti, è la più piccola delle città interessate al viaggio, ma anche la più suggestiva, quasi interamente raccolta all’interno delle sue mura di argilla e paglia, una bomboniera con i suoi tanti tesori d’arte, appartenente alla regione della Korazmia, in passato terra dei zoroastriani prima che nell’Ottavo secolo fosse invasa dagli arabi che avrebbero introdotto la religione musulmana.

Khiva si trova a pochi chilometri da Urgench, e già la strada per arrivarci dà idea del Paese che, almeno nei quadranti cittadini, avremmo conosciuto: moderno, con strade larghe, ben asfaltate, pulite, giardini curati, di fiori e prati all’inglesi che nelle città maggiori non possono non colpire i viaggiatori, in particolare chi, come noi, vivendo a Roma, è abituato al degrado cittadino che si manifesta in strade piene di buche e sporcizia, giardini abbandonati, personale inefficiente. Delle città uzbeke colpisce la cura continua degli addetti che a mano, una ad una, raccolgono le foglie cadute, strappano i fiori appassiti, bagnano le aiuole con l’innaffiatoio, mentre per i prati, sempre ben rasati, sono previsti sistemi di irrigazione capillare che mantengono il verde a dispetto dei 250 giorni di sole di cui gode il Paese e dei 40 gradi all’ombra che incombono nei mesi centrali dell’estate a partire dalla primavera (a maggio abbiamo incontrato, in particolare a Boukhara, anche giornate di 38 gradi centigradi). Moltissimi i gelsi che spandono i loro dolcissimi frutti per le strade. D’altra parte è da questa pianta che prende linfa la tessitura della seta che è uno dei prodotti qui più diffusi, visto anche che le città uzbeke si trovano su quella che viene chiamata la via della seta, con tappa finale Venezia.

A riguardo, noi abbiamo avuto la fortuna di assistere a Bukhara al Festival della seta e delle spezie, con le sue bancarelle diffuse, tra un mare di colori, in tutte le vie e le piazze centrali della città, mèta di genti venute da tutto il paese per acquisti ai quali pure noi non abbiamo saputo sottrarci. In quel contesto abbiamo potuto anche toccare con mano gli aspetti più comportamentali del vivere quotidiano della gente che si è rivelata, in questa e in altre circostanze, ammirevole per la sua spontaneità nei rapporti, i volti sempre sorridenti, quasi orgogliosi di esibire le loro dentiere d’oro. Era un piacere essere avvicinati da persone, più le donne in verità che, incontrandoci, desideravano essere fotografate con noi, un desiderio per altro ricambiato, non essendo minore il nostro di fotografarle ed essere fotografati con loro.

Dicevamo di Khiva e delle sue suggestive mura, alte tra i sette e otto metri, che ancora la circondano, rendendo così del tutto intatta quella che viene chiamata l’Ichan Kala, cioè “la fortezza interna”. Di forma rettangolare con un perimetro che ha 650 metri di lunghezza per 400 di larghezza per complessivi 2 chilometri e duecento metri di lunghezza, il viaggiatore può immergervisi, senza dare troppo spazio alla fantasia, tanto fantastica è la stessa realtà di un passato suggerito anche dall’abbigliamento dei suoi abitanti, che poi incontreremo ovunque in Uzbekistan.

P_20180529_114303Le donne con i loro vestiti lunghi e colorati, composti da una tunica ricamata e sotto i pantaloni dello stesso colore, ma si vedono anche donne, in particolari le più giovani, vestite all’occidentale, seppur con un tocco d’oriente nei colori sempre forti, il rosso ad esempio, e nei ricami, mentre magari si riparano dai raggi infuocati del sole con un ombrellino. Del tutto sparita la tradizionale paranja, il costume costituito da un lungo mantello che copriva la testa, mentre un velo nero, di crine di cavallo, nascondeva il viso. Il raro merito di questa liberazione va al periodo comunista che ne proibì l’uso e, per questo, si ricorda un 8 marzo del 1927 in cui un gruppo di donne uzbeke, arrivate nella grande piazza Registan di Samarcanda, accesero un falò dentro il quale gettarono il velo. È importante notare che, d’allora, tranne che per il fazzoletto o il velo in testa, il volto delle donne è sempre libero, così come capita di incontrarne molte, soprattutto tra le giovani, con i capelli sciolti e al vento. Negli uomini è invece di prammatica il tradizionale “tubeteika”, come si chiama il cappellino quadrato che portano in testa, così come le tipiche camicie con il taglio dritto, qualcuno accompagnato con il caffetano, altri con la giacca normale, pur non mancando chi si veste in giacca e cravatta all’occidentale.

P_20180528_125541copiaTutto a Khiva, come nelle altre città, in diversa misura, a seconda della loro grandezza, parla di Islam, le bellissime moschee e gli arditi e piastrellati minareti, così come le madrase, cioè le scuole coraniche, come i diversi mausolei, questi e quelle tutti artisticamente lavorati, ispirati a una concezione architettonica grandiosa che utilizza mattoni, marmi, smalti, legni sempre minutamente lavorati con i tipici disegni geometrici, le mistiche svastiche, la cui idea fu poi fatta propria dai nazisti, le scritte dorate in arabo ispirate al Corano, le colonne gigantesche che, talvolta suggeriscono, nella loro disposizione, fughe nello spazio in giochi di prospettiva, cupole smaltate, per lo più lisce ma anche finemente sbalzate che si profilano suggestive verso il cielo. La loro fitta presenza in uno spazio così raccolto come quello di Khiva, ma anche in quelli delle maestose piazze che vedremo a Bukhara, Shakhrisabz, Samarcanda e Tashkent, ci narrano di un paese antico e devoto, ma assolutamente non chiuso nella sua confessione. Allo straniero che arriva non gli si impedisce di visitare moschee, minareti, madrase e mausolei, con l’unica accortezza di togliersi le scarpe prima di accedervi. Il pensiero, per contrasto, corre all’immagine di un altro Islam che, con la sua violenza, le sue distruzioni, il tanto sangue innocente versato, il suo fanatismo e la sua follia disumana, sembra contraddire tanta bellezza. Qui no. In Uzbekistan l’Islam si apre al viaggiatore, allo straniero, lo accoglie. Merito di una visione laica che lo Stato ha imposto fin dalla sua indipendenza, autoproclamata, il 31 agosto del 1991, così affrancandosi dalla dominazione sovietica che, da par suo, portava le colpe di una ideologia che, in nome di un ateismo di stato poliziesco, minava alla base i principi di libertà dell’uomo, fatti propri dal comunismo e dalle lotte in nome di esso, per imporre una visione decisa da pochi uomini, da un partito, sulla intera popolazione alla quale si negava, si è voluto negare, con la libertà di scelta anche quella della sua storia e delle sue tradizioni, ora impedendole, ora nascondendole, cancellandole dai libri, dalla cultura, dalla vita, obbligandoli a una unica dimensione che era quella del potere sovietico.

 

“Ho saputo dell’esistenza di personaggi come Amir Temur, più conosciuto come Tamerlano, il condottiero nato a Shakhirisabz, solo dopo l’indipendenza. I sovietici avevano azzerato la nostra storia sui libri, facendola cominciare dal loro arrivo qui” ci dice Gula, la guida che ci avrebbe fatto conoscere Tashkent, dopo quanto già di ciclopico, delle mura fatte costruire da Tamerlano, avevamo visto a Shakhirisabz: i resti del palazzo Ak-saray, il grande portale con le torri minareto dalla base diagonale. Una costruzione che nel suo insieme durò vent’anni, a partire dal 1380 e per la quale furono convocati i maggiori artigiani locali così come i maestri della Korazmia e dei Paesi caduti sotto il dominio di colui che è oggi un eroe nazionale.

Oggi il nome delle vie principali e delle piazze, così come le statue monumentali, portano quello di Amir Temur e di altri condottieri e dei tanti scienziati e poeti che costellano la lunga storia di questo Paese, prendendo il posto di quei personaggi come Lenin, Stalin che fino al 1991 giganteggiavano, immeritevoli, per questa terra che i sovietici avevano depredato, sfruttato, spogliato, costringendo i contadini alla monocoltura del cotone con interventi di irrigazione che avrebbero prosciugato il grandissimo, tale da essere definito mare, lago Aral, ormai diventato una landa deserta e al quale, per lo stesso motivo, nulla può più neppure la grande nutrice d’acqua che è il fiume Amu Darya, prosciugato anch’esso rispetto a un tempo, la cui foce non fornisce più il lago Aral perdendosi nella sabbia del deserto.

Certo, il cambiamento, la conquista dell’indipendenza, sia dell’Uzbekistan che degli altri paesi ex sovietici dell’Asia centrale, non è stato prodromo di una vera democrazia, aprendo la porta a Presidenti che ora li guidano o li hanno guidati, finché non sono morti, e presto imitati dai successori, con pugno di ferro. E, come già durante il regime comunista, senza libertà di stampa e, comunque, di critica. D’altra parte questi stessi presidenti erano già dei boss locali nel periodo sovietico.

L’Uzbekistan ha avuto in Islom Karimov, già segretario del Partito comunista uzbeko nominato da Gorbacev, il suo Presidente padrone per ben 26 anni, cioè dal giorno dell’indipendenza nel 1991 alla sua morte per infarto nel 2016, il quale ha riportato alla luce i fasti del passato pre-sovietico non senza dimenticare, dei sovietici, il culto della personalità propria, mentre parallelamente la figlia Gulnara spadroneggiava indisturbata negli affari e nel campo artistico inventandosi cantante con il nome di Googoosha, che era poi il nomignolo che il padre le aveva dato quand’era piccola. Una maneggiona che, nel periodo di maggior gloria, l’avrebbe portata ad essere l’azionista maggiore di tutte le aziende principali del Paese e poi, caduta in disgrazia, agli arresti domiciliari, dove dovrebbe ancora trovarsi, visto che il padre non c’è più e il suo posto è stato preso da colui che, di Karimov, era il primo ministro, cioè Shavkat Mirziyoyev. Oggi sessantenne, ingegnere specializzato in impianti di irrigazione, il nuovo presidente ha il pallino della modernizzazione del Paese, non disgiunto, nella continuità del suo predecessore, da uno stretto controllo dello stesso attraverso una capillare struttura che prevede la nomina motu proprio, e non per elezione da parte dei cittadini, dei governatori delle singole dodici regioni e dei sindaci delle città, la cui durata della carica è dettata dalla fedeltà allo stesso. Naturalmente, questo vale ancor più per le cariche di quei corpi dello stato come la Polizia, i servizi segreti (recentemente oggetto di arresti e di cambiamenti al vertice), delle scuole così come del controllo delle gerarchie religiose al fine di prevenire colpi di mano da parte degli islamici fondamentalisti che già in passato avevano tentato la presa del potere attuando addirittura, in diverse occasioni – la prima nel 1999, avendo di mira proprio il presidente Karimov, salvatosi per un soffio –  una serie di attentati ai quali la polizia ha risposto con centinaia di arresti e di morti. Una attenzione questa, contro il pericolo fondamentalista, che è propria di tutti i paesi dell’Asia centrale ex sovietici.

La laicità dell’islam uzbeko è pertanto garantita dallo Stato che, ai fini della sicurezza, ha posto sotto la propria ala le moschee, autorizzandone al culto circa quaranta in tutto il Paese. Con il sopravvento degli islamisti fondamentalisti si rischierebbe di tornare, seppur per strade opposte, ai veti comunisti. Se quest’ultimi ne impedivano l’accesso per l’imposizione dell’ateismo, i primi lo permetterebbe solo ai correligionari, impedendolo ai cosiddetti “infedeli”, quali sono considerati il resto degli umani.

In questo modo tutti possono apprezzare la bellezza di edifici che risalgono a secoli addietro come, a Khiva, la moschea Djuma, del diciottesimo secolo, con la sua fuga di 212 colonne lignee, finemente intarsiate, la maggior parte delle quali, intagliate per lo più nei secoli diciottesimo e diciannovesimo e in parte recuperate da costruzioni andate in rovina nel Medioevo, il che spiega la diversa fattura dei capitelli.  Oppure, a Samarcanda, ammirare lo straordinario spettacolo del Registan, la piazza principale della città, con le sue due grandiose madrase dirimpettaie, risalenti al quattordicesimo secolo. Una piazza in qualche modo emblematica, ricca com’è di una storia che parte nel nono e decimo secolo, durante il periodo dei Samanidi, per attraversare quello di Tamerlano e poi dello scienziato Ulugbeg, l’astronomo che con il suo semplice sestante, posto sulla collina più alta della città, catalogò 1018 stelle con una precisione confermata dagli studi successivi da parte di altri scienziati. E non meno strabilianti le tante moschee, con i relativi minareti e le madrase di Bukhara, mentre Tashkent, distrutta la città vecchia nel 1966 da un terremoto, si lascia ammirare per la sua estrema modernità. Tanto che, oltre a moschee, minareti, madrase, musei e monumenti di costruzione più recente, oggetto di visita sono le stazioni della metropolitana, realizzate con l’intera rete, lunga 40 chilometri, dai sovietici e che, proprio per questo, ricordano quelle di Mosca. Dopo gli attentati dei fondamentalisti, tutte le stazioni della metropolitana sono controllate meticolosamente dalla polizia che passa al vaglio del metal detector e perquisisce le borse dei viaggiatori al momento dell’accesso.

P_20180524_124120Se qui ha un senso la presenza dello Stato, meno comprensibile è l’autoritarismo con il quale prima Karimov e ora Mirziyoyev governano il proprio popolo, obbligando, per dirne una, tutti gli esercizi pubblici, compresi ristoranti e nightclub a chiudere la sera alle 23 anche se ci sono ancora clienti o una festa in atto, magari di matrimonio. Oppure, visto che nei matrimoni c’è la tradizione di invitare anche 400 persone in costosi banchetti e cerimonie per le quali si comincia a fare risparmi fin dalla nascita dei figli, non si esclude una legge che ne limiterà il numero a 150, così da far decidere allo Stato quella che dovrebbe essere una libera scelta del cittadino. Il quale ha tanti altri vincoli, naturalmente. Uno di questi, nel caso di acquisto di un’automobile, è quello di “scegliersi” una Chevrolet, inevitabilmente di colore bianco, visto che in Uzbekistan esistono linee di montaggio di questa azienda e di questo colore. Non esistono, se non molto sporadicamente, automobili di altre marche. “È bello che gli uzbeki sostengano l’industria automobilistica locale” si è sentita dire Erika Fatland, la scrittrice finlandese che sui paesi ex sovietici dell’Asia centrale ha scritto un interessante reportage con il libro “Sovietistan”, edito da Marsilio.

L’intervento dello Stato, qui, ha risvolti anche fortemente paternalistici. Lungo le strade che costeggiano le campagne – strade non certo perfette come nelle città visitate, anzi tali da ricordare quelle piene di buche e prive di segnaletica orizzontale di Roma e del Lazio – è possibile vedere file di case tutte uguali che servono come insediamenti per i contadini, che possono abitarle pagandone l’affitto oppure comprarle con un mutuo quindicinale, fermo restando che il terreno è sempre dello Stato.

C’è da dire che questo aspetto di papà Stato, se in Uzbekistan ha più forti connotati autoritari in assenza di una opposizione politica, di una libera stampa e associazione e opinione, è però anche una tendenza che sta prendendo un po’ il sopravvento in tutto il mondo, in cui si assiste a una sempre maggiore invadenza dello Stato nella vita non solo pubblica dei cittadini, ma anche privata, con provvedimenti di leggi – si pensi solo alla pletora di quelli varati in Italia – attraverso le quali tassa, quando non ne impedisce il pieno godimento, proprietà legittimamente acquisite, dal denaro in banca alla locazione delle case e dei negozi alla propria automobile (una tassa di proprietà, quest’ultima, unica esistente al mondo) e così via, secondo una cultura statalista che riduce il cittadino a suddito, il quale finisce col delegare allo Stato ogni aspetto della propria vita, alienandolo da quel senso di responsabilità e di autodeterminazione che ha la sua piena realizzazione nella libertà dell’individuo, non certo nella sua irreggimentazione.

Articolo e immagini di Diego Zandel

Diego Zandel, di origine fiumana, è autore dei seguenti volumi:

Massacro per un presidente (Arnoldo Mondadori Editore, 1981)

Una storia istriana (Rusconi, 1987)

Crociera di sangue (Arnoldo Mondadori Editore, 1993), Segretissimo n. 1239

Operazione Venere (Arnoldo Mondadori Editore, 1996), Segretissimo n. 1306

I confini dell’odio (Aragno, 2002)

L’uomo di Kos (Hobby&Work, 2004).

Il figlio perduto (Alacran, 2010)

Il fratello greco (Hacca, 2010)

I testimoni muti (Mursia, 2011)

Essere Bob Lang (Hacca, 2012)

Il console romeno, racconti (Oltre Edizioni, 2013)

Manuale sentimentale dell’isola di Kos, (Oltre Edizioni, 2016)

Balcanica – Viaggio nel sudest europeo attraverso la letteratura contemporanea (Edizioni Novecento Libri, 2018)

Ha scritto inoltre molti racconti sparsi in diverse antologie collettive, mentre quelli di ambientazione istro-fiumana e greca sono raccolti nel volume Verso est. Racconti di oltre il confine orientale e dell’Egeo (Campanotto 2006).

Sito personale di Diego Zandel

 

 

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